Giovani ed ISIS: pericolosi patti di fede


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Editoriale
di Maria Carmen de Angelis – Vicedirettore

editoriale

Forse si chiamava Francesco, il veneziano arruolato nell’Isis che sarebbe stato ucciso da una donna cecchino curda. Quanto sia vero? Cosa sia vero? A questo punto non ha importanza se la vittima si chiamasse Francesco, se fosse stata Canadese, se militasse da tempo nell’organizzazione e quant’altro. Si chiama invece Mohamed Emwazi il cosiddetto boia dell’Isis. Su di lui ci sono informazioni anagrafiche certe: è nato e cresciuto a Londra dove si è persino laureato in informatica a Westminster. Nel caso di Mohamed, che da quando ha abbracciato l’integralismo islamico è diventato Jihadi John, si conosce anche il suo promettente curriculum tutto votato al terrorismo internazionale. Pare che questo ragazzo educato, colto, benestante militasse nella cellula inglese di Al Qaeda e fosse nel mirino dei servizi segreti dal 2009. Ma queste informazioni vere o presunte tali sono tutti dettagli e i dettagli fanno i giornali, sono sulla bocca di quanti ne parlano. A questo punto c’è un fatto: un accadimento preciso che mi spinge a parlare di questo Stato Islamico che non conosco meglio di tanti che sembrano averne capito perfettamente gli equilibri. Il fatto in sé si concretizza nella pericolosa migrazione di tanti giovani europei che ad un certo punto della propria esistenza decidono di convertirsi ai principi della Jihad. Siamo in presenza di una sconcertante realtà che sta attraversando l’Europa, per adesso ancora in punta di piedi, ma niente le impedisce di raggiungere prima o poi più consensi. Il fatto, ovvero la migrazione, ci impone due considerazioni ed una quantità indicibile di domande che hanno a che fare certamente con un’idea di benessere globale. Partiamo con le considerazioni uscendo dalla nostra logica di quotidianità, immergendoci fin dove possiamo in un contesto di guerriglia. Lo so è uno sforzo ai limiti dell’irragionevole, perché noi, almeno molti di noi non conoscono la guerra, benché il nostro stile di vita sia il frutto di un risultato conquistato “sul campo”. La prima considerazione è che la guerriglia è una cosa subdola che ti prende alle spalle, ti sorprende a vestire tuo figlio, a tornare da scuola. La guerriglia e qui faccio la mia seconda riflessione, si “accetta” anzi si legittima soltanto se alla base c’è un’ideale religioso, politico, culturale. Ma chi lo dice? Alcuni la pensano così. Questo è il luogo comune che si veste di autorità, sono le parole di quanti pretendono di conoscere il mondo Islamico talmente bene da trarne conclusioni spesso menzognere o semplicemente superficiali. Un certo retaggio culturale, una storia fatta di dittature, la prevaricazione ad opera di certe minoranze fanatiche sulle maggioranze deboli, sono solo un lato della faccenda. Quindi sempre più spesso mi chiedo cosa c’è dietro tutto questo? Sarà legittimo domandarsi quale forza propulsiva potrà mai avere anche solo per pochi questo mondo oscuro? Tanti ci raccontano dello scontro fra culture, teoria che identifica nelle differenze culturali la ragione del contrasto oriente- occidente. Ebbene anche qui sembra poco efficace ridurre tutto ad una diversa visione del mondo. Per meglio dire questo conflitto culturale da solo non spiega il perché di certi accadimenti. Non basta. Ci sono senz’altro degli interessi economici che al momento vengono occultati dietro un fanatismo religioso che ci minaccia, che minaccia il nostro benessere quotidiano. Il livello di allarmismi è alto, tanto più legittimato da questi sporadici, ma pericolosi patti di fede tra i nostri ragazzi e l’Isis. Il problema dei volontari stranieri che vanno a combattere per lo Stato Islamico, diventa cruciale allorquando alcuni di questi volontari abbracciano il fanatismo, spingendosi a compiere attentati suicidi. Allora è opportuno domandarsi che rischi potrebbero incombere sui Paesi occidentali se fanatici di questo tipo venissero a compiere atti del genere nelle nostre città? L’elemento poi che desta più preoccupazione data la dinamica dell’attentato suicida è che ne basterebbero pochi per creare il panico, per commettere stragi, per ridurci vessati. Su tutto il nostro mondo che ha commesso l’errore fatale di sottovalutare le esigenze di un’altra parte d’umanità che aveva ugualmente diritto di vivere dignitosamente, pende una spada di Damocle. Ed i giovani che abbandonano le loro città, quelle vite belle o brutte, soddisfacenti o meno, per abbracciare un credo che in certi casi costerà loro la vita, sono il termometro di un livello di insoddisfazione che sale. E allora ci si trova di fronte ad un’ insoddisfazione certamente legata a qualche ragione sociale che invade, investe un ragazzo inglese e lo porta ad un livello di alienazione tale da non riconoscersi più. Non mi stupisce sentire chi conosceva il boia più feroce dell’Isis, lo stesso che si fa filmare mentre spara in testa alla gente, dire che fosse educato, perbene, colto. Il punto è che probabilmente nessuno ha letto dietro la barricata che lui stesso aveva issato col suo mondo che non era certo quello dell’Isis. E pur vero che il numero ancora esiguo di tali migrazioni porta l’immaginario collettivo a credere che questi individui siano fondamentalmente squilibrati, borderline, depressi, frustrati, insomma gente con problemi, che non ci sta più con la testa. E anche il cosiddetto boia dell’Isis è stato già archiviato come tale. Ma anche in questo caso… possiamo accettare una così riduttiva conclusione? Questa sentenza che proviene dalla gente non è un altro palliativo che serve alla stessa per accantonare il problema? Risposte ce ne sarebbero, ma nessuna è in grado di tenere testa alla complessità del fenomeno. Quello che emerge preponderante è l’esigenza da parte dell’Occidente, di sentirsi di nuovo al sicuro, di salvaguardare i suoi stili di vita, frutto di una visione democratica della stessa. Ma il mondo occidentale deve stare attento, il mondo occidentale non deve cercare solo lo scontro perché intimamente convinto di essere più forte nel giusto: Charlie Hebdo in qualche modo ce lo insegna ed il viso delle tre giovani donne inglesi che volevano andare in Siria ci costringere a guardare ed ascoltare chi fondamentalmente non conosciamo. Il fatto poi che il boia più violento dell’Isis fosse pur sempre un’inglese è la dimostrazione che occorre fermarsi e capire quanta parte di responsabilità detiene il mondo occidentale in tutto questo. La difesa delle libertà, di tutte le libertà umane è un dovere inalienabile che i nostri rappresentanti politici devono tutelare, un approccio strategico nell’affrontare la questione Isis che tende a non considerare la multidimensionalità del fenomeno è fallimentare, perché incapace di difenderci. Perché non guarda dentro quel mondo, perché applica unicamente una logica d’attacco che non protegge le nostre libertà. Allora una morte è soltanto l’ennesima morte, e se ti chiami Francesco o sei canadese, sei l’ennesimo squilibrato, la testa calda che è morta per sua stessa coglioneria. Occorre una visione d’insieme alternativa a quella in atto in grado di affrontare il problema in tutta la sua complessità, che non ci escluda, non ci esoneri aprioristicamente da ogni forma di coinvolgimento e responsabilità verso ciò che sta succedendo oggi nel mondo.